Redditometro sì, redditometro no. Lo strumento di accertamento sintetico del reddito, introdotto nel 2010 e poi sospeso nel 2018, sta tanto facendo discutere il Governo, a seguito del suo “ritorno” annunciato con decreto ministeriale del Ministero dell’Economia e della Finanza dello scorso 7 maggio e pubblicato in Gazzetta Ufficiale n.116 del 20 maggio, ma sospeso dallo stesso Governo a poche ore dall’annuncio del suo paventato ritorno.
Capiamo, intanto, di che si tratta.
Tramite il redditometro, l’ Agenzia delle Entrate prende come riferimento il possesso o la disponibilità di taluni beni che sono indicatori di capacità contributiva e associa agli stessi un certo reddito, utilizzando appositi coefficienti e dati. Così facendo, individua una sorta di reddito “congruo” in relazione al mantenimento di ogni bene. I singoli redditi associati ai beni vengono cumulati, con opportuni aggiustamenti di decurtazione, dando vita al reddito sintetico complessivamente accertato in capo al contribuente.
In buona sostanza, si tratta di una determinazione indiretta del reddito complessivo del contribuente, basata sulla capacità di spesa del medesimo.
Qualora il reddito individuato risulti maggiore rispetto a quello dichiarato, e lo scostamento sia superiore a 1/5, l’amministrazione finanziaria sarà legittimata a emettere un avviso di accertamento, basato proprio su tale rideterminazione sintetica del reddito. La ratio è, in sostanza, che se il contribuente ha potuto permettersi certe spese, avrà dovuto pur finanziarle in un certo modo, che il fisco presume essere la percezione di redditi in nero.
Spetterà a questo punto al contribuente dimostrare che il mantenimento dei beni che risultano in suo possesso è finanziato da redditi esenti (e come tali non suscettibili di dichiarazione), da smobilizzi patrimoniali, da elargizioni del coniuge o genitore o, in generale, offrire qualunque giustificazione che escluda la percezione di redditi non dichiarati al fisco (Wikipedia)